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Nella pelle di un clandestino   

Jeune Afrique – 10/16 febbraio 2008
Libri – Nella pelle di un clandestino (di Séverine Kodjo-Grandvaux)


Per quattro anni, il giornalista Serge Daniel ha osservato dall’interno le filiere dell’immigrazione illegale che, dall’Africa dell’ovest, giunge in Europa. Un’esperienza che racconta in un’opera sorprendente.


Il 29 gennaio 2008 giunge un dispaccio dell’Agenzia mauritana di informazione (AMI). Secondo il direttore regionale della Sûreté di Nouadhibou, Ahmed Ould Ely, nel 2007 i servizi di sicurezza mauritani hanno arrestato e rimpatriato 3257 migranti clandestini, per la maggior parte originari dell’Africa Subsaharaiana.
Nouadhibou, città portuale che si trova a 470 km a nord di Nouakchott e a qualche gomena dall’arcipelago spagnolo delle Canarie, è diventata il principale centro di immigrazione subsaharaiana illegale dopo che il filo spinato posto a protezione delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla – questo piccolo “muro di Berlino”, come lo chiamano i migranti – è diventato una barriera insuperabile.
“Quando una rete si esaurisce, ne nasce subito un’altra sulle ceneri della prima”, spiega Serge Daniel, 45 anni, giornalista del Benin corrispondente di RFI a Bamako, che ha svolto una inchiesta durata quattro anni sulle reti che organizzano il traffico di uomini. “Les Routes clandestines”, nel quale riferisce della sua esperienza unica, è un libro semplice ed efficace che rifugge dai grandi discorsi e dai buoni sentimenti. Permette al lettore di seguire passo passo le peregrinazioni del giornalista e di scoprire attraverso molte testimonianze il quotidiano di questi “avventurieri” dei tempi moderni.
Serge Daniel ha rivelato le connessioni con i traffici di droga e di armi, il contrabbando di sigarette e le reti di prostituzione. Ma si è anche mescolato alla massa anonima dei clandestini. E con loro ha sopportato il freddo, la fatica, l’angoscia dei passaggi alle frontiere… Era il modo migliore per capire come funzionano queste filiere, ma anche quello che questi uomini e queste donne possono sopportare e quali sono le loro motivazioni.
“E’ soprattutto a livello mentale che si può riconoscere un clandestino – racconta l’autore – E’ un uomo deciso”. Un uomo che, costi quel che costi, oltrepasserà il muro della morte. Perché i suoi familiari hanno puntato tutto su di lui e non è nemmeno concepibile di fallire e tornare all’ovile a mani vuote. Perché è tale la pressione sociale e familiare, che molti preferiscono la morte alla vergogna.

 

Fabbriche di passaporti
Quanti sono? Migliaia. “La maggior parte sono poveri, senza punti di riferimento, ma non necessariamente costretti. Decidono di partire per migliorare il loro quotidiano o quello della loro famiglia…”
Le filiere meglio strutturate hanno base in Nigeria, fino al punto che il gigante dell’Africa, coi sui 140 milioni di abitanti, è diventato il centro del dispositivo e Lagos lo “Hub” (nel linguaggio informatico, nodo di smistamento di una rete. Ndt)  dell’immigrazione clandestina. I capi delle reti che si trovano qui hanno i loro rappresentanti in Benin, Cameroun, Togo, Burkina Faso, Mali, Niger, Ghana, i principali paesi fornitori di clandestini.
E’ a Lagos che Serge Daniel ha trovato due “fabbriche di passaporti”, un elemento determinante nella misura in cui “i documenti falsi hanno una importanza fondamentale e soprattutto quelli camerounensi e maliani (…) Il Cameroun è il solo paese dell’Africa  centrale i cui residenti non hanno bisogno di visto per raggiungere il Mali; il passaporto del Mali consente poi di entrare in Marocco senza visto…”
I candidati provenienti dall’Africa dell’Ovest o dall’Africa centrale sono inviati dai reclutatori a Gao (nel nord del Mali) dove sono venduti i falsi passaporti maliani. Vengono poi raggruppati per nazionalità all’interno di “ghetti”, ambienti affittati per il “concentramento” in attesa della partenza verso Tin Zaouaten, alla frontiera tra Mali e Algeria.
Nel 2005 Tinza, soprannominata da loro la “49° provincia della sabbia”, venne abusivamente occupata da circa un migliaio di africani che attendevano di attraversare la frontiera. Si erano costruiti delle casupole in terra battuta per una estensione di 15 ettari e si erano raggruppati all’interno dei ghetti, organizzati come dei “mini-Stati, con il loro presidente… e il loro cimitero”.
L’odissea clandestina prosegue verso Tamanrasset e Maghnia, non lontana dal Marocco. Alla periferia di quest’ultima città è sorta una bidonville battezzata “gli Stati Uniti dell’Africa”. Fatta di tende di plastica, tuguri costruiti con tronchi di albero, fogliame e cartone di imballaggio, ospita più di tremila subsaharaiani. Ogni comunità ha il suo presidente. Tutto è previsto. Una chiesa per i cattolici, una moschea per i mussulmani, un campo di calcio, e anche una prigione, perché “qui non si scherza con la disciplina”. Al centro di questo incrocio: i passatori (coloro che guidano i clandestini oltre frontiera, ndt) che lavorano in modo indipendente o quelli raggruppati in “sindacati”.
Poi si va a Oujda e infine, alle porte di Melilla e di Ceuta, il monte Gourougou e le foreste di Bel Younes, organizzate come due “repubbliche”, con le loro leggi, i loro rappresentati eletti ( il “chairman”, i suoi aggiunti, i responsabili della sicurezza), i tribunali coi loro presidenti, il procuratore, l’avvocato e la prigione. “Giustizia della giungla, giustizia sbrigativa”, commenta Serge Daniel. Prostituzione, stupri, soprusi, sono esperienza quotidiana per i clandestini. Il 25 giugno 2005 in cinquecento tentano di oltrepassare la barriera di filo spinato tra Nador e Melilla. Vengono subito “posti sotto controllo dalle forze di sicurezza spagnoli, respinti senza riguardo in territorio marocchino, prima di essere ricacciati verso la frontiera algerino-marocchina”.  Si fa il bis nel settembre e ottobre successivo. L’opinione pubblica internazionale si commuove quando i media diffondono le immagini dei giovani abbandonati in pieno deserto dalle autorità marocchine. Ed esercita pressioni sul regno dello sceriffato, che non tarda a realizzare una politica efficace per smantellare le reti sul suo territorio.

 

Confondere le piste
Dopo, i clandestini tentano l’attraversata del Mediterraneo partendo dalla Mauritania o dal Senegal. Ma anche lì le autorità locali fanno opera di contrasto. “Vi sarà una riorganizzazione delle filiere – pronostica Serge Daniel – i migranti riprenderanno a partire a dosi omeopatiche verso il Marocco, la Mauritania e il Senegal. Non ci saranno più flussi imponenti verso un centro particolare, come negli ultimi anni. Ma tutto sarà sparpagliato per confondere le piste”.
Sono oggi a migliaia bloccati sulle rotte clandestine, impossibilitati ad andare avanti e a ritornare indietro. Avendo appena di che mangiare, sottoposti alle peggiori umiliazioni ed esposti a tutti i pericoli. “Se la comunità internazionale e i dirigenti africani non sapranno proporre loro niente, ci penseranno gli altri” prosegue il giornalista, pensando agli islamisti che infestano la regione.

 

 

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Un traffico prospero


Dopo il traffico di droga e armi, quello delle persone è il più lucrativo. E’ un mercato di 10 miliardi di dollari all’anno che mantiene almeno 2000 persone sul continente. Un falso visto Schengen costa tra i 1500 e i 3000 euro, un falso passaporto maliano tra i 200 ed i 1000 euro. I clandestini devono sborsare tra i 1500 e i 3000 euro per raggiungere le coste marocchine, mauritane o libiche, poi quasi altrettanto (1000 euro) per attraversare il Mediterraneo e raggiungere l’Europa. Allo stesso modo, versando dai 10.000 ai 12.000 dollari a persona, uomini e donne originari del subcontinente indiano sono convogliati in aereo verso paesi africani come il Burkina Faso, il Senegal o il Mali. E si inseriscono nelle reti a Gao, per poter seguire le rotte clandestine fino al Marocco.

 

 

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Sono stato protetto dai trasportatori


Serge Daniel spiega come ha fatto per inserirsi e risalire lungo le filiere dell’immigrazione clandestina.
“Mi sono subito reso conto che l’immigrazione clandestina ha bisogno di tre cose fondamentali: il trasportatore (quello che conduce i “clienti”), l’ospitante (il proprietario del “ghetto” nel quale il clandestino attende il passaggio) e il passatore. Io ho prima di tutto preso contatti con qualche trasportatore di Gao, dipendente dalla filiera nigeriana. A loro ho detto che ero un giornalista, ad altri che ero un clandestino. Questo dipendeva dalle situazioni. Ma durante tutto il tragitto, ero protetto dai trasportatori.
Partendo da Gao, nel viaggio fino a Tinza, passando per Kidal per andare in Algeria, io ero veramente nella pelle di un clandestino. Non avevo assolutamente niente con me, niente orologio, niente registratore, niente documenti di riconoscimento. Giusto una borraccia di acqua. Ci abbiamo messo dodici ore da Gao a Kidal, quando con una macchina se ne impiegano solo sei. E’ stato una volta arrivato a Kidal, che ho cominciato a guardare le cose con distacco. Mi sono isolato in un hotel e ho cominciato a scrivere. Poi, da Kidal siamo andati a Tin Zaouaten, dove ho comprato un passaporto maliano. Ho pagato solo 200 euro perché conoscevo la filiera. Ma altri hanno sborsato fino a 1000 euro. In totale, durante questi quattro anni di inchiesta, la mia vita di clandestino mi è costata 3.500 euro.
Ho seguito la filiera fino a Nouadhibou dove mi sono imbarcato su una piroga per raggiungere e Canarie. Ma sapevo già che i poliziotti erano stati informati della nostra partenza e ci avrebbero arrestato. Altrimenti non l’avrei fatto. Io non voglio morire! In questo modo invece non ho rischiato niente”.